La parola «femminicidio» aleggia, come un fantasma oscuro e minaccioso,
sulle nostre menti smarrite. I carnefici sono uomini di ogni età che
hanno perso il contatto con quella zona nobile della psiche che
caratterizza l'homo sapiens, e in particolare con la ragione e l'etica.
Ciascuno di noi, se fosse amputato di queste due qualità fondamentali,
diventerebbe capace di commettere azioni ripugnanti e criminose,
distruttive per sé e per gli altri. Nel fenomeno del femminicidio c'è
però qualcosa di più: alla donna viene tolta la dignità di individuo; è
solo una cosa, un oggetto, un elemento materiale di proprietà esclusiva
di colui che mette in atto l'azione cruenta. Per questo il femminicidio
non può essere considerato una patologia nel senso psichiatrico del
termine. Il femminicidio si conclude con un atto folle, ma è frutto di
un percorso a ritroso verso il territorio della distruttività, una
regressione psichica in senso antropologico. Esso va dunque considerato
per quello che è: un atto di distruttività pura, che rivela il trionfo
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