Una riflessione e una proposta di percorso dedicata a ciò che significa
essere genitori anche in seguito a un divorzio, che lascia spesso molti
adulti impreparati davanti ai loro figli. PREFAZIONEdi mons. Jean
Laffitte Ormai è un luogo comune: si dice che il divorzio sia diventato
un’alternativa banale a una situazione familiare che nel passato poteva
restare stabile nonostante le difficoltà, le incomprensioni e le
vicissitudini dell’esistenza. Sono molte le pubblicazioni che trattano
questo tema così doloroso. Alcuni testi mostrano molto giustamente
quanto ciò che danneggia l’istituzione della famiglia si ripercuota
sulla società, rendendola più fragile e privandola dell’aiuto che le è
necessario per svolgere i compiti di solidarietà più elementari:
accoglienza incondizionata del bambino nella sua situazione di
dipendenza totale e di vulnerabilità, in quanto la sua educazione nel
corso degli anni richiede una sana capacità di giudizio da parte degli
educatori naturali, chiamati quindi a mettere in atto tutte le loro
preziose e premurose attenzioni; scambi naturali tra i membri di tre o
quattro generazioni; trasmissione di conoscenze concrete, fondate su una
saggezza ricevuta e condivisa, profondamente radicate in una tradizione
secolare; apertura verso l’esterno della famiglia con la
socializzazione degli adolescenti e dei giovani che poco per volta si
confrontano con le esigenze del mondo, con l’intento di partecipare, in
futuro, al suo sviluppo; educazione, infine, alle virtù dell’ospitalità,
del servizio, del rispetto per gli altri, del pudore, del senso di
responsabilità per il bene comune della famiglia e, al di sopra di
tutto, formazione all’altruismo e alla compassione attiva. Tutti questi
aspetti sono stati spesso illustrati e commentati. Nel breve saggio che
Olivier Bonne-wijn dedica al divorzio riscontriamo un approccio
radicalmente nuovo: il divorzio viene presentato nei significati più
profondi che esso assume agli occhi del bambino, che risulta sempre la
sua prima vittima. Non esiste un divorzio neutro. Il bambino viene
prematuramente trasformato, per così dire, in adulto responsabile dei
genitori. L’autore si serve della parabola del figliol prodigo vedendo
nel divorzio un’inversione totale delle funzioni. Scrive, per esempio:
Quando si verifica un divorzio [.], il padre prende l’eredità destinata
ai figli e parte per un paese lontano, mentre i figli restano a casa da
soli, sperando intensamente in un ritorno altamente improbabile. La
parabola diventa quella del «genitore prodigo». Il testo non intende
però limitarsi a dolorose constatazioni di fallimento. La finezza
dell’analisi lascia posto alla moderazione del pastore che, essendo
anche un grande moralista, non cade mai nella trappola del
moralizzatore. Potremmo riassumere il suo studio con questa indicazione
breve e delicata: «Agisci in modo da trattare tuo figlio come un bambino
e non come un adulto!» e poi: «Rispettare e promuovere l’infanzia del
proprio figlio significa donargli ciò che gli è dovuto come persona».
Nella seconda parte dell’opera, Olivier Bonnewijn propone sette
riferimenti etici che il lettore scoprirà nel corso della lettura. Il
suo approccio continua a essere fondamentalmente pratico, essendo
chiaramente ispirato dalla sua esperienza di assistenza delle coppie, ma
anche dei bambini, verso i quali si è già rivolto, con talento, in
opere precedenti. Questa attività pastorale non diventa soltanto
l’oggetto di una testimonianza personale diretta, per quanto ciò possa
risultare interessante. Pagina dopo pagina, la sua esperienza diventa di
facile comprensione grazie a una riflessione profonda e a un lavoro
svolto nel corso di molti anni, che ho avuto modo di apprezzare e
ammirare personalmente in molteplici occasioni. Spero che questo breve
testo sia destinato a un’ampia diffusione: sono convinto che sarà
illuminante per tutti coloro che, con serietà e speranza, si dedicano a
servire la causa del matrimonio e della famiglia, ma anche e soprattutto
per le persone che, direttamente o indirettamente, hanno sperimentato
come figli, come coppia o come genitori, la sofferenza e la prova del
divorzio.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO 1 | Riferimento antropologico ed
etico di base 1. Le radici della filiazione Sposi e genitori «Per questo
l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due
saranno un’unica carne» (Gen 2,24). I due racconti della creazione si
realizzano nell’alleanza tra uomo e donna, nella loro unione reciproca.
«Unirsi» (dabaq), nella Bibbia, significa creare un legame affettivo
molto forte, un legame fedele e strutturato, un legame che resiste alle
prove della vita. «Unirsi» vuol dire impegnarsi nei confronti dell’altro
con tutto il cuore, con tutta la forza, con tutta la mente, con tutto
il proprio essere. Un impegno di questo tipo esige di «lasciare» padre e
madre per fondare una nuova comunità di amore e di vita e porta i
coniugi a formare «un’unica carne». Questa espressione rimanda non solo
all’unione coniugale sessuale, ma anche al legame coniugale profondo che
costruiscono insieme nel corso degli anni, attraverso i tanti compiti
della vita familiare, le preoccupazioni materiali, le gioie e i dolori.
Ora, l’amore coniugale, mentre conduce gli sposi alla reciproca
«conoscenza» che li fa «una carne sola» (cf. Gen 2,24), non si esaurisce
all’interno della coppia, poiché li rende capaci della massima
donazione possibile, per la quale diventano cooperatori con Dio per il
dono della vita a una nuova persona umana. Così i coniugi, mentre si
donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio,
riflesso vivente del loro amore. Così l’amore e l’unione, espressi in
termini di «dono», descrivono intimamente il legame coniugale e quello
parentale. Il dono reciproco degli sposi è all’origine di un nuovo
essere. Secondo il progetto originario di Dio, la «culla antropologica»
di ogni nuova creatura rimane nella relazione d’amore dei genitori. È
questa la sua «casa», il «tetto» sotto cui si realizza il suo libero
sviluppo come persona, come amore, come individuo frutto di un dono. Per
alcuni rabbini, come per esempio Rachi, un’«unica carne» indica in
ultima istanza il figlio che nasce dall’unione degli sposi. Il legame
coniugale genera quindi quello parentale, dandogli modo di crescere e
svilupparsi. Il bambino è chiamato a realizzarsi e a nutrirsi della
comunione tra i genitori, dell’intesa dei loro cuori; è invitato a
entrare e crescere in questa comunità di persone, a ricevere il suo
posto e a partecipare attivamente, come figlio o come figlia, alla sua
costruzione. Questa realtà antropologica della filiazione è di natura
profondamente naturale ed è percettibile dalla ragione filosofica e da
quella coinvolta nelle scienze umane.
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